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Kleg

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Le storie del Kleg

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Kleg 3 - Impronte sulla nebbia


Venerdì dico che ho poco tempo e sabato notte mi tolgono un ora?

Questo è un complotto! Stanno cercando di bloccare le storie del Kleg. Ma non ci riusciranno!

Kleg statistics:
Azione, malvagità e intrigo sono le tre colonne portanti di questi racconti (pensavo di aggiungere anche raccapriccio e volgarità, ma questi ultimi due sono più abbellimenti che parti principali). I valori andranno da 1 (contenuto moderato) a 5 (contenuto estremo).
Azione: 3.
Malvagità: 5.
Intrigo: 4.
Se hai già finito il racconto magari dimmi anche se sei d'accordo sulla valutazione; nel caso la metterò a posto per aiutare i prossimi interessati.

Hai visto? Siamo arrivati a 5 di malvagità!

Per ora il racconto preferito dai lettori è quello con più intrigo. Vediamo come andrà questo.

Fammi sapere le tue valutazioni!

Si parte.

O se preferisci

Kleg
Clarion è davvero così malvagio? Scoprilo cliccando sulla maschera per iniziare subito il racconto.
Adesso non attendo altro che le tue opinioni.

Impronte sulla nebbia

«Sei licenziato.» L’uomo piantò un coltello nel tavolo.

Il grigiore dell’alba entrava da una finestra: illuminava la stanza di luce soffusa. La candela appoggiata sul tavolo emetteva una luce più calda. Ma il buio resisteva, come se impregnasse l’essenza stessa dell’aria.

L’ombra del pugnale raggiungeva l’angolo opposto del tavolo: quello dove stava seduto Clarion.

«Come?»

La lama continuava vibrare.

«Sei stato congedato. Sei fuori.» Il volto dell’uomo contrastava con i suoi modi. Occhi chiari e tratti gentili, addirittura effeminati.

«Non fraintendermi. Lo sapevo già.» Clarion appoggiò l’indice sull’elsa del pugnale. La lama smise di tremare. «Ma c’è modo e modo di gestire la cosa.»

Le sopracciglia dell’altro erano fini, molto fini, quasi impercettibili. Si arcuarono mentre appoggiava una busta sul tavolo. «Il mio nome è Taires. Nella busta puoi controllare i codici per identificarmi.»

Un sigillo di cera chiudeva la busta, aveva impresso la maschera stilizzata: il simbolo del Kleg.

«Credevi sarei fuggito?» Clarion intinse il pennino in una boccia d‘inchiostro, appoggiò il gomito sulla busta e tornò a scrivere sul registro che aveva di fronte.

«Questo rione è una brutta zona per gli inseguimenti.» Taires rimase a fissare la pagina di registro. «Cos’hai in mente? Un modo per…»

Un urlo straziò la notte: il grido di un uomo. Durò l’arco di un respiro per poi attenuarsi fino a sparire.

«Sono troppo impegnato per essere licenziato. Questione chiusa.» Clarion sbarrò una voce sul registro, annotò un “5” di fianco a un’altra. «Puoi andare.»

Le dita di Taires si appoggiarono sul polso di Clarion. Lo bloccò.

Solo allora Clarion si decise ad alzare la testa. Male. L’urlo forse era riuscito a metterlo a disagio, ma adesso si stava riprendendo: lo stronzo sorrideva.

«Hai una faccia familiare» disse Clarion.

Le braccia di Taires si incrociarono mentre le labbra indugiavano in un sorriso con un sottofondo di disprezzo. Il bastardo si era preparato; ma bisognava comunque fare un tentativo.

«Sei nel Kleg da dodici anni, Taires. E non sei mai diventato un operativo.» Clarion lo fissò, ma riprese a parlare proprio quando l’altro stava per rispondere. «É perché sei un vigliacco: hai paura di uccidere. E l’unico modo per fermarmi ora è, appunto, uccidermi.»

Altro urlo dalla stanza di fianco. Una specie di “No, basta, vi prego” prolungato. Raggiunse due volte una tonalità più stridula, alla sillaba "ba” e al “pre”.

«Vero. Non mi piace uccidere innocenti. Ma sai quante Ombre ho congedato finora?» Taires staccò il pugnale dal tavolo. «Sai quante sono sopravvissute?»

Certo che lo sapeva. Aveva letto il fascicolo. Era per quello che avevano scelto Taires: perché era bravo, perché sapeva gestire incarichi confidenziali. Ma doveva anche avere quella faccia da giullare sodomita?

«D’accordo, hai il permesso di uccidermi.» Clarion annuì, con il modo di fare di un uomo che accetta il prezzo richiesto da un panettiere. «Ma prima devo salvare il mio compagno.»

Taires si lasciò andare sullo schienale. «Ti ascolto.»

«Si chiama Belthar. Adesso è sotto copertura, nella zona tra questa bloccarda e il Ludum.»

«Bersaglio?» Il pugnale volteggiò in aria; ricadde nelle mani di Taires che iniziò ad accarezzare la lama.

«Uno della stampa clandestina.»

«Un imbrattacarte?» Taires arricciò il naso.

No. Decisamente Clarion non sarebbe mai riuscito ad abituarsi. Capelli lisci, scuri e puliti. Perfino ben pettinati. Neanche un filo di bianco nonostante l’età. Probabilmente erano tinti. Che razza di debosciato era quello? Si era fatto bello prima di un’esecuzione?

«Lo hanno spedito nei Vicoli per un imbrattacarte?» ripeté Taires.

«Belthar è un irresponsabile.»

Clarion trattenne il respiro quando l’altro gli puntò contro il pugnale.

Gli occhi. Sì, quelli erano convincenti. Azzurro chiaro. Ghiaccio. Taires guadagnò qualche punto nella scala di minacciosità gestita mentalmente da Clarion.

«Basta giochetti, Clarion da Luben. Anch’io ho letto il tuo fascicolo.» Il viso di Taires si avvicinò. Neanche un accenno di barba, nessuna cicatrice. No. Gli occhi sarebbero dovuti bastare. «Non sei il tipo che rischia la vita per un compagno.»

«Voglio stupirti.»

«Hai studiato all’università di Emeral, per poi venire cacciato dalla famiglia quando sei tornato. Senza fare resistenza: come un vigliacco.» Gli occhi di Taires si serrarono su Clarion: sembrava volerlo congelare con il solo sguardo. Meglio concentrarsi. Doveva testarlo, non farsi provocare. «E adesso ti sei messo a piagnucolare, nascosto sotto le gonne del Kleg, fingendo di essere diventato qualcuno.»

Una serie di colpi dall’altra stanza. Legno che sbatteva su carne. Un corpo che cadeva a terra. Rumore di trascinamento. Uno strappo.

«Hai letto solo il fascicolo pubblico.» Clarion strinse la mascella, ma la sensazione di offesa stava facendo capolino: covava nello stomaco, si stava attorcigliando all’intestino.

«Sbagliato. Sei un incapace.» Si sorrisero a vicenda. Clarion ebbe l’impulso di afferrare quei bei capelli e scaraventargli la faccia contro il tavolo fino a fargli ingoiare tutti i denti bianchi e candidi; uno alla volta. «Perché saresti dietro a una scrivania se no?»

Di nuovo le urla: una serie di “ahhh” prolungate.

Non riuscire a rispondere subito all’accusa aumentò il risentimento di Clarion.

«Sono qua perché quelli bravi come me sono stimati quanto una purga di prima mattina. I mediocri odiano i capaci. Da sempre!» L’indice di Clarion si alzò con fare ammonitorio; la mano sollevata sopra al tavolo, di fianco al pugnale che l’altro stava usando per minacciarlo.

«Sei bravo a razionalizzare.» La testa di Taires annuì; sorrideva con sarcasmo.

«Ti hanno mandato dei bastardi corrotti, impegnati giorno e notte a nettarsi il culo tra loro.» La mano di Clarion si strinse. Va bene la professionalità, ma a tutto c’era un limite. «Come fai a non notarlo? La puzza di marcio copre tutta Itis.»

Taires iniziò a ridacchiare e appoggiò il coltello sul tavolo. L’elsa verso Clarion. «Ti vanti in giro di essere il migliore, non è vero? Lo trovo divertente.»

Clarion stava per ribattere, ma prese un respiro. Guardò l’elsa del pugnale. Un altro respiro. Si sedette. Allontanò il pugnale, spostandolo con le nocche della mano sinistra. Lo riportò nella sezione del tavolo più vicina a Taires.

Bastardo. Lo aveva manipolato. Ma aveva fatto un errore: era appena stato troppo evidente.

«Fai uso di droghe, vero?» Il tono di Clarion tornò calmo. La pressione alla testa diminuiva. Si rese conto di sentire il freddo della stanza.

«E tu vai a puttane.»

«Si vede dai tuoi occhi: le occhiaie.» Clarion si avvicinò per toccarlo, l’altro si ritrasse. «E le narici anche. Inali fogliaspina.»

Taires distolse lo sguardo. Riprese l’arma e iniziò a pulirsi le unghie, grattandole con la punta della lama. Il silenzio divenne gelido come il cuore di un usuraio nella stagione delle riscossioni.

«Ti lascio ancora qualche minuto per aggiornarmi sulle indagini. Altrimenti…» Taires lanciò il pugnale: si conficcò nello schienale di Clarion, di fianco all’orecchio sinistro.

Clarion rimase impassibile; se l’altro pensava di impressionarlo si sbagliava. Glielo avrebbe dimostrato. «I drogati sono facili da controllare. Basta offrire loro un po’ di denaro: ne hanno sempre bisogno.»

«Mi stai corrompendo?»

«No, ma qualcuno lo ha fatto in passato.» Clarion analizzò le reazioni dell’altro. Nessuna contrazione, nessun ammiccamento. Impassibile, addirittura rilassato. Forse era pulito. «Volete mettermi una ganascia ai coglioni mentre il mio compagno non può coprirmi.»

Taires scoppiò a ridere. «Ti credi davvero così importante?»

«Mai una bustarella?» Clarion sbuffò. «Andiamo. Oggigiorno il Kleg funziona a bustarelle e leccate di culo.»

Un lamento dalla stanza accanto: più basso e rassegnato rispetto ai precedenti. Il suono di un corpo che rotolava. Un cigolio, il rumore di qualcosa che cadeva. Infine lo sbattere di una botola in chiusura.

«Non ti fidi dei tuoi compagni: questo è uno dei motivi per cui vogliono sbatterti fuori.»

Nessun segnale di sensi di colpa, né cenni che indicassero una menzogna.

Bene, molto bene. Quindi era un drogato, ma non era un corrotto.

«Mi hai convinto» disse Clarion.

Taires guardò prima Clarion, poi la finestra, quindi di nuovo Clarion. Forse si aspettava un’imboscata.

Qualcosa iniziò a battere da sotto il pavimento; arrivarono anche delle urla soffocate.

«Inizia a dirmi cosa sta succedendo qua sotto.» Il tacco di Taires batté sulle piastrelle, come per valutarne la stabilità. Gli fecero eco altri colpi, più violenti, che provenivano dal basso.

«Un tipo di una banca. Secondo me sappiamo già tutto quello che poteva dirci, ma vogliono lasciar impratichire il torturatore.» Clarion chiuse gli occhi per pensare; fece spallucce. «Qua sotto abbiamo una cantina a tenuta stagna che può collegarsi alle fogne. La allaghiamo per sbarazzarci dei corpi.»

«Qualche relazione col funzionario rapito della Castal & Daer?» L’espressione di Taires rimase circospetta. Magari non si aspettava che un’Ombra confessasse tutto senza tortura.

«Sì, anzi. É proprio lo stesso.»

«Sull’Urlo della Banshee avevo letto che era stato trasferito fuori città.» Le palpebre di Taires si socchiusero, le dita tamburellarono sul tavolo. Sguardo scettico. Non ci credeva ancora.

«É stata la Castal & Daer a richiedere l’articolo sulla Banshee; nel frattempo ha chiesto a noi del Kleg di trattenerlo per scoprire cosa aveva spifferato.»

«E ha spifferato?»

«Tutto quello che sapeva.» Clarion appoggiò le mani dietro la testa, e si lasciò andare sull’imbottitura dello schienale. Il grigiore della giornata non diminuiva. Fuori dalla finestra si vedeva solo nebbia. «I ribelli hanno annotato tutto e hanno portato gli appunti alla Frusta. Gli editori della Frusta hanno preparato presse da stampa per pubblicare un libro.»

«Un libro? Con tutti i segreti bancari?» Gli occhi i Taires si aprirono di più. Nessun dubbio, forse non lo stava convincendo, ma almeno lo stupiva. E la vera sorpresa doveva ancora arrivare.

«Esatto. Noi dobbiamo trovare la tipografia clandestina e distruggerla.»

Le dita di Taires strinsero le narici mentre guardava in basso a destra di Clarion. Probabilmente stava ripassando le informazioni ricevute. Niente di strano. «C’entra qualcosa con il tuo compagno?»

«Lo ignoro. Non sarebbe la prima volta che il Teschio mi nasconde delle informazioni. Belthar cerca un cronachista, io l’editore. In qualche modo saranno collegati.»

Qualcosa di morbido batté contro il pavimento. Molto debole. Non male. I funzionari delle banche erano proprio tenaci. Clarion sentì di nuovo il freddo. Decise di allontanare quella sensazione.

«Sai, sei strano. Sembri tranquillo.» Taires era tornato guardingo. «Sai che fuori ti aspetta un demone? Dovrai subire la rimozione della memoria e spesso non…»

La mano di Clarion si agitò per aria, facendo cenno di smettere. «Non ci sarà nessun licenziamento. Al contrario, Taires. Sei assunto.»

La bocca di Taires rimase aperta. Una maledettissima soddisfazione.

Clarion estrasse una lettera e la appoggiò sopra alla busta che aveva lasciato l’altro. Stessa forma, stesso sigillo. L’altro chiuse le labbra e alzò le sopracciglia.

«Lavoro per il Teschio. Nella lettera trovi la sua firma e i suoi codici. D’ora in poi lavorerai con noi.»

Gli occhi di Taires correvano dal sigillo sulla lettera agli occhi di Clarion. Ammiccò più volte.

«Nessun trucco. L’incarico è confidenziale. Ufficialmente siamo operativi. Ufficiosamente il Teschio vuole creare una specie di servizi interni contro la corruzione.» Finalmente Taires aveva preso la busta e rotto il sigillo. Ma ancora tentennava. Gli occhi fissavano Clarion e non la comunicazione. «Ci serve qualcuno specializzato nel trattare gli altri agenti.»

La maniglia si abbassò e la porta si aprì, cigolando. Prima entrò una gamba scura, incrostata di una sostanza nera semisolida, seguita da un corpo coperto da scaglie e altre croste scure. Aveva tre occhi di colore ocra, scialbi e senza pupilla: uno sulla fronte, due sopra agli zigomi.

«A proposito, ecco la nostra collega. Un demone della seduzione.» Clarion si alzò. Sorrideva, fissando il petto del demone. «Se passavi il mese scorso non sembrava neanche femmina.»

«Sto migliorando, vero?» I tre occhi si abbassarono a guardare i due seni di carne marcia. «Mi chiamo Moina dell’Abisso. Sono venuta per consegnare una…»

«Certo, certo. Io la chiamo Latrina, Crosta o, quando sono particolarmente ispirato, Vomito di Cane Appestato. Tu chiamala come ti pare.»

Taires rimase a osservare la lettera, non sorrise nemmeno. Aveva l’espressione di uno che si era appena beccato una supposta nel culo. Peccato, sarebbe stato meglio uno con il senso dell’umorismo.

«Be’, comunque si nutre di malvagità.» Clarion sorrise. Era una cosa così ridicola a dirsi. «Il suo ruolo da noi è sicurezza, divinazione, e anche guarigione se non sbaglio.»

«Solo quando sono “carica”. A proposito, grazie per lo spuntino.» La demone fece un cenno verso il pavimento. «Ma lasciati andare di più la prossima volta.» Si girò e appoggiò una mano sul petto di Clarion.

«Come ringraziamento cosa offri? Un bel pompino?» Clarion rise, nascondendo il disagio: la mano artigliata rimaneva appoggiata sul petto. La prese e la spostò. Un grave errore. Almeno il petto era coperto dalla casacca; le dita di Clarion invece erano nude. Nude sulle scaglie viscide.

«Posso anche sentire la presenza di magia.» Moina andò a chinarsi vicino a Taires. «E sento uno strano odore su di te.»

I tre occhi della demone lo guardarono; brillavano di aspettativa, come se Taires fosse un biscottino con la sorpresa da scoprire.

«É la fogliaspina: una droga magica» disse Taires.

«Sì.» La demone appoggiò il naso sul collo dell’uomo. Clarion lo ammirò per la compostezza: Taires non mosse un muscolo. «Ma c’è qualcos’altro. E anche puzza di bontà.»

«Ehi, Crosta, lascialo stare.» Clarion tornò a sedersi «Ora andate pure, devo controllare…»

«Oh, mi hai fatto dimenticare.» La demone alzò un sacco che teneva in mano e lo aprì: comparve una maschera in fasce di cuoio. «Il teschio mi ha detto di darti questa dopo il colloquio.»

La maschera finì tra le mani di Clarion. «Perché dopo?»

«L’ultima missione. In giro si dice che hai lasciato scappare qualcuno per colpa del tuo cuore gentile.» La demone schioccò la lingua. «No. Non si fa.»

«Ho anche fatto sbattere nel Ludum una dei nostri. Che guarda caso era corrotta.» Clarion continuò a rigirare la maschera per controllarla. Nessuna macchia di sangue, nessuno strappo, nessun segno di violenza, solo un po’ di fango. «Adesso dimmi cosa ne è stato di Belthar.»

«Non lo so.» La demone si leccò i denti con gusto «Ma che carino: hai riconosciuto subito la maschera.» Nei tre occhi comparvero alcune macchie, più rosse e vivaci.

«É vivo?» Clarion strinse una mano a pugno.

«Chi lo sa?» La risata del demone era odiosa.

I modi della demone gli davano fastidio. Anzi, lo stavano facendo imbestialire. Stava scherzando su qualcosa di serio. Belthar non avrebbe mai abbandonato la maschera per una stupidata.

«Cosa pensa il Teschio?»

«Riguardo a cosa?» Quel sorriso, quegli occhi alieni, quei maledetti denti.

Il pugno di Clarion raggiunse la demone al volto. La testa girò di scatto mentre gocce di saliva color catrame volarono nella stanza.

«Aia.»

La mano di Moina fu così veloce che quasi non la vide arrivare. Clarion si accasciò tenendosi la gola.

«Il tuo pugno non può farmi male.» La voce del demone si finse triste. «Ma l’offesa. L’offesa mi ha ferito a fondo.» Moina scoppiò a ridere.

Clarion si stava rialzando; la gola gli faceva male. Il dolore non aiutava ad abbandonare la rabbia; ma aveva bisogno delle risposte. «Il Teschio pensa che Belthar sia ancora vivo?»

«Ha lasciato la maschera fuori dall’edificio che doveva controllare: l’ho recuperata circa due ore fa nel posto prestabilito. La copertura è saltata, ma dovrebbe essere ancora vivo.»

Clarion fece per rispondere, ma si fermò: qualcosa non andava. Percepiva una vibrazione che aumentava. Il terreno iniziò a tremare.

Lo sguardo di Taires si diresse al pavimento, come se si aspettasse qualche sorpresa. La demone barcollò verso il muro per appoggiarsi. Una pietra grossa quanto una testa cadde, spaccandosi sul pavimento. Taires si lanciò oltre al tavolo. Le braccia di Clarion si alzarono per fermarlo, ma l’altro lo prese e lo scaraventò sul pavimento insieme alla sedia. Una trave cadde lì vicino insieme a una slavina di detriti. Il corpo di Taires lo protesse.

Clarion si rese conto di avere il respiro era accelerato. Le scosse erano finite e Taires rimaneva immobile sopra di lui. Clarion lo rigirò, appoggiandolo con cura sul pavimento. Gli prese la faccia e provò a scuoterla.

«Tutto a posto?» La voce canzonatoria di Moina; il peso delle dita untuose sulla spalla.

Clarion si scosse per liberarsene; sollevò una mano aperta e schiaffeggiò Taires.

«Mi occupo di lui. Tu controlla se ci sono magie in atto» ordinò a Moina.

Gli occhi di Taires si aprirono, e le palpebre sbatterono due volte. Il volto si raggrinzì dal dolore mentre la mano si portava al fianco.

«Qualcosa di rotto?» chiese Clarion.

Taires gemette. «Uhhh. No, credo di no.»

«Riesci a camminare?»

Nonostante il tremolio delle ginocchia Taires riuscì ad alzarsi. «Sì.»

«Magia della natura.» La demone sputò quelle parole con disgusto. «Puzza di sciamano.»

Oltre le pareti e dalla strada si stavano alzando delle urla: grida di dolore, di aiuto e altri che davano ordini.

«Dobbiamo muoverci. Un agente scomparso e un attacco alla bloccarda.» Un cumulo di detriti bloccava la porta. Il calcio di Clarion la aprì. «Non può essere una coincidenza.»

 

Nascosti nella nebbia due cani pelle e ossa lottavano per ottenere le spoglie di un ratto morente. Uno dei cani perse la presa quando la testa del ratto si staccò con uno schiocco. L’altro ringhiò mentre trascinava il resto della carogna nella melma.

La melma: la difesa naturale per tenere all’esterno gli altri cittadini dai Vicoli del Condannato. Un impasto di merda, fango e carogne da cui si alzava un odore che andava a mescolarsi con l’effluvio delle concerie. La nebbia faceva perfino ristagnare la puzza che sembrava appiccicarsi dentro le narici.

Clarion sputò per terra: la saliva si mischio con il fango, mentre la nuvoletta di alito caldo aleggiò nell’aria gelida.

«Siamo troppo scoperti» disse Taires.

Un uomo con il viso sporco di fango avanzò nella nebbia; passò loro di fianco, barcollando. Clarion attese che fosse fuori portata di udito.

«Il posto è quello: Belthar doveva entrare là per incontrare il suo imbrattacarte.» Oltre il grigiore della nebbia si riuscivano a vedere muri di pietra chiazzati di scuro: un vecchio incendio aveva bruciato gli edifici vicini, ma l’edificio indicato da Clarion era resistito.

«Nell’orfanotrofio?»

Clarion spostò il peso da una gamba all’altra: il terreno non gli piaceva, dava una sensazione di instabilità. Sembrava di stare sulla melassa.

«Cosa mi sai dire, Crostina mia?»

Due palpebre si chiusero, rimase aperto solo l’occhio ocra sulla fronte.

«Hanno schermato l’edificio, non posso vedere.» Quando Moina riaprì gli occhi una crosta marrone penzolò sopra le rughe della guancia; cadde e affondò nella sporcizia per terra.

«Mettiamo di riuscire a camuffarti.» Clarion spostò il colletto della giubba, per cercare di fermare il freddo; ma la nebbia passava dentro ogni fessura. «La magia naturale può riconoscerti?»

«La magia naturale si nutre di passioni.» Le nuvolette causate dall’alito di Moina erano più dense del normale. Curioso, ma non così inaspettato. «Potrebbero capire che le mie sono… diverse.»

«Neanche tu puoi entrare» disse Taires. «Hanno preso Belthar e fatto crollare metà della bloccarda: ci stanno aspettando.»

Clarion esaminò le porte: doppi battenti di bronzo, della grandezza di una carrozza. «Si aspetteranno un assalto dei Bracchi.» L’edificio trasudava gli anni e non li portava bene; pareti ammuffite con tracce di muschio, oltre a crepe visibili perfino da quella distanza, in mezzo alla nebbia. «E avrebbero il tempo di bloccarli per distruggere tutto. Quel posto è una fortezza.»

«Hai paura per il tuo amichetto?» Il sorriso della demone divenne lascivo; orribile sul volto butterato.

«Gli Inquieti si dividono in compartimenti stagni: non si conoscono tra loro. Entrare sarà uno scherzo.» Lo stivale di Clarion affondò nella strada con un risucchio mentre partiva verso l’orfanotrofio. «Latrina, tu rimani a coprire l’uscita.»

La mano di Taires lo bloccò per la spalla. «Ci bastano un paio di giorni. Otteniamo l’ordine di un Giudice e torniamo con i soldati.»

Nella piazza davanti c’era un carro con le ruote spezzate. Una donna lo usava come riparo; stava cullando un neonato: lo teneva stretto e cercava di coprirlo con una tunica sporca di macchie marroni mentre teneva lo sguardo basso, sulla ciotola per chiedere l’elemosina.

Il bambino alzava nuvolette di fumo, segno che era vivo e che forse la scena era autentica. O forse il bambino faceva da copertura a una sentinella.

«Se c’è di mezzo il Teschio c’è di mezzo la corruzione, e qualcuno del Kleg potrebbe essere collegato. Non voglio lasciargli il tempo per insabbiare tutto.»

«E se ti sbagliassi? Se l’orfanotrofio fosse solo un semplice dormitorio?»

Clarion si grattò la parte di labbro sotto le narici. «Va bene. Tu controlla in giro, io vado dentro.»

Le labbra di Taires si strinsero. Annuì. Quindi si allontanò, abbandonandoli.

I denti del demone schioccarono due volte mentre l’altro spariva, inghiottito dalla nebbia.

«Seguilo» disse Clarion. «E vedi di renderti utile, piattola. Finora sei stata utile quanto un istrice nei pantaloni.»

La testa della demone si inclinò verso destra; i capelli ondularono, penzolando verso terra come tentacoli sporchi. «Lo sai che il mio desiderio più profondo è soddisfarti. Ma tu pensi solo alla tua troia.»

«Non è vero. Io penso solo a te. Ogni volta che mi sei vicina provo…» Clarion emise un gemito, cercando di riempirlo il più possibile di sarcasmo. «Mmm. Riesco a malapena a trattenermi.»

Due dita della demone si appoggiarono sulla spalla di Clarion.

«Cerchi sempre di ferirmi.» Le dita iniziarono a scivolare verso il basso. «Ma non puoi nasconderti: so che la ami.»

Clarion prese la mano di Moina e la spinse via. «Devi toglierti il vizio di toccare la gente.»

«La città è piena di cortigiane. Ma tu vai sempre dalla stessa. Sei così tenero.» Moina fece un risolino.

L’indice di Clarion si alzò; fissò la demone per farle capire che stava superando il limite.

Moina si limitò a guardare l’arto sollevato; si leccò i denti appuntiti, come se stesse osservando un piatto gradito.

«Pensi che Letis non ti tradisca?» Gli artigli si chiusero sulla mano sollevata. Quando Moina si strusciò le scaglie lasciarono una macchia sulla camicia di Clarion.

«Fai quello che ti ho detto, aborto dell’abisso.» Clarion la spinse via, o almeno ci provò. Il tentativo lo fece quasi cadere a terra.

Moina non si spostò, sembrava inchiodata al terreno.

«Sei sempre duro con me… Mi piace così tanto.»

«Segui Taires» ripeté Clarion mentre recuperava l’equilibrio. «E la prossima volta che vuoi toccare qualcuno infilati la mano nel culo.»

«Lo sto seguendo: la nebbia non è un problema.» La demone scrutò il proprio palmo, e sorrise. «Ma mi ecciti così tanto quando sei volgare.»

Il gemito di Moina gli fece raggrinzire i testicoli. Ma, dannazione, lo aveva davvero fatto incazzare. Magari sarebbe riuscito a lasciar perdere Letis; ma quel demone la stava facendo diventare un’ossessione. Tanto che ci pensava pure adesso: in missione.

Letis: la donna bionda, o meglio, la prostituta bionda che lo aveva affiancato durante l’ultima missione. La ricordò con i capelli sporchi di sangue e l’espressione triste.

No. Doveva concentrarsi.

Clarion rimpicciolì le immagini nella mente e le sostituì con lui che arrestava il nemico. Via. Ogni volta che l’immagine di Letis tornava continuò ad allontanarla. Lo fece altre tre volte prima di arrivare alla porta del dormitorio.

 

Cinque bambini rimanevano seduti su un’unica cassa di legno, stretti gli uni agli altri. Tremavano dal freddo, coperti da stracci che lasciavano esposte braccia e gambe, così magre che si vedevano le ossa tendere la pelle. Uno aveva lo sguardo perso e un colorito cadaverico. Clarion gli guardò le mani. Le dita non mentivano, sembravano pezzi di ghiaccio: assideramento avanzato. Le avrebbe perse, sempre che sopravvivesse..

Un altro bambino aveva tra le mani un ratto vivo e sporco di melma. Lo addentò. Il ratto squittì mentre la carne veniva strappata.

Il calcio di Clarion risuonò contro la porta di bronzo.

«Apri questa dannata porta, Custode.»

Il muro attutì le parole ma la risposta aveva una tonalità simile a: “arrivo, arrivo, non sfondate la porta sto arrivando”.

Rumore di chiavistelli che si aprivano, e passi in avvicinamento: passi che facevano vibrare il terreno.

Dietro Clarion sentì il tonfo umido dei bambini che scendevano della cassa e atterravano nella melma. La brezza gelata gli accarezzò la nuca: la nebbia continuava l’assedio per passare oltre i vestiti.

Lo spioncino si aprì e due occhi apparirono nell’oscurità: «Chi sei?»

Clarion fu travolto.

Il gruppo di bambini corse verso la porta. La massa di stracci sbatté prima contro la gambe di Clarion per poi iniziare a grattare contro il bronzo.

«Padrone, fateci entrare, vi prego.» Non mostravano le forze per gridare; il lamento dei bambini era un mormorio biascicato di preghiera e disperazione.

La porta si aprì e apparve un uomo sovrappeso, vestito con una giacca di cervo che gli stava stretta; in mano teneva una coscia di pollo. I bambini la guardarono con gli occhi luccicanti. Nessuno osò muoversi, ma uno stomaco brontolò nel silenzio.

«Loro possono entrare» disse l’uomo.

I bambini corsero dentro, tenendo le spalle basse e strisciando contro gli stipiti della porta per stare il più lontano possibile dall’uomo. Ma continuavano a guardare la coscia di pollo: era calda ed emanava una nuvoletta di calore profumato.

«Sai già chi sono. Fammi entrare, Custode.» Due bambini superarono Clarion: trascinavano l’altro semicongelato. Erano gli ultimi.

«Tu.» Il Custode diede un morso alla coscia di pollo. «Vattene.»

Clarion emise un respiro attraverso il naso. «Pensi di potermi fermare?»

Il Custode fece spallucce e gli lasciò spazio per entrare. Addentò di nuovo la coscia.

Nel buio s’intravedeva una sagoma, confusa con lo sfondo. Si riusciva a distinguere solo il biancore degli occhi.

«Ha dentro l’anima di tuo padre, vero?» Clarion lo indicò, facendo un cenno con la testa. «Ha messo la sua anima come garanzia per un credito dalla Castal & Daer.»

«Fosse solo quello.» Il gozzo del Custode si alzò e abbassò mentre inghiottiva.

«Non ti fidi di una faccia nuova, vero? Eppure mi aspettavi.»

Altrimenti perché rimanere sulla porta?

L’attenzione del Custode tornò alla coscia: la studiò, come per cercare il punto migliore da attaccare.

«Il terremoto. Sono qui per quello.»

Il Custode lanciò un’occhiata di sbieco, trattenne il respiro per un attimo e si irrigidì. Ritornò a masticare, più lentamente. Bene. Quello poteva essere un indizio.

«A volte le cose non vanno come devono.» Clarion rallentò, cercando di respirare allo stesso ritmo dell’altro. «Bisogna sapersi adattare.»

«Giusto. Avevo ascoltato parole simili una volta.» Il Custode si pulì le labbra con il dorso della mano. «Subito dopo hanno ipotecato la mia casa.»

«Giusto. Lo stabilimento della tua famiglia.» Clarion si passò un dito sulle labbra. «Negli ultimi mesi però sei riuscito a pagare i debiti alla Castal & Daer. Penso che sia una delle cose che ci ha messo così in sintonia.»

«Come no.»

Le mani di Clarion si appoggiarono sui fianchi. Distanziò i piedi tra loro, aprendo le gambe per assumere una posizione più stabile. «Andiamo. Lo sappiamo tutti e due. Come sappiamo che più ci pensi più vuoi farmi entrare. Adesso, vogliamo procedere?»

Il Custode lanciò un’occhiata alla coscia: aveva ancora qualche brandello di carne. La rigirò tra le mani, ma non sembrò soddisfatto; quindi gettò l’osso fuori dalla casa, nella melma.

«Nel libro dei censi risulto come Custode. E questo golem è una garanzia legata alla casa. Sono sicuro che capisci cosa significa.»

«Significa che tu e il tuo paparino siete legati anche dopo la sua morte.» Clarion sorrise, mentre controllava il golem. Una mano era di forma cubica, e sporca di una sostanza secca color carminio; l’altra sembrava una pinza. «Devo prendere le tue parole come una forma di singolare umorismo o come minaccia?»

«Diciamo come garanzia.» Il custode annuì. «E se continui a ridere ti tappo il culo e ti faccio cagare dalle narici. Cosa vuoi qua?»

«Lo trovo ironico.» Il sorriso di Clarion scomparve. «Il tuo vecchio era un notaio, ma stranamente aveva un cuore. E pensava più ai bambini che alla famiglia, così ti ha lasciato solo debiti e un orfanotrofio pignorato. Ma adesso che sei tu a gestirlo...» Clarion rimase a fissare l’espressione dell’altro. Aveva guadagnato pochi punti, ma era convinto di aver evitato il peggio. «Be’, lo sai no?»

«Diciamo di no.» Il Custode si limitò ad ammiccare.

«Diciamo che hai già visto il mio collega.» Clarion sospirò come se l’altro stesse mettendo alla prova la sua pazienza. «Sono qui perché ha fatto un errore, e voglio risolverlo. Quindi sono costretto a darti una mano.» Clarion fece un cenno verso il golem. « Comunque hai qualcuno che non si limita solamente ad autenticare carte. Sarai protetto.»

Il Custode squadrò Clarion da capo a piedi.

«Entra pure, ma rimani a tre passi di distanza da me.»

Il Custode fece alcuni passi indietro e aprì il palmo della mano, facendogli cenno di entrare.

Camminarono fino ad arrivare in un salone con al centro un focolare in pietra. La puzza era cambiata rispetto all’esterno: sudore rancido, cibo andato a male e urina. C’era anche qualcos’altro, cuoio misto a... Ma certo, puzza di collante bollito: quindi da qualche parte nell’edificio c’era la tipografia clandestina.

«Come mai il tuo collega non è qui?»

«Sai già che il Kleg si stava avvicinando.» Clarion dosò la tonalità della frase perché sembrasse a metà tra affermazione e domanda.

«Ovvio.»

«Abbiamo un’Ombra del Kleg alle costole. Uno che non si compra e non può essere convinto con le buone. Un vero zappatore di minchie.»

«Avete scoperto chi è?»

«Andiamo. Sai più di quello che stai fingendo di sapere.»

Meraviglioso. Il trippone ci stava cascando. Il Custode tentennò, come per soppesare la frase successiva.

«Voleva ammazzarlo. Se sei venuto tu immagino non ci sia riuscito.» Il Custode sfregò le mani tra loro, lentamente. Vicino al fuoco.

La capacità di controllarsi di Clarion fu messa alla prova. Il cuore aumentò i battiti mentre i tasselli del mosaico si ricomponevano: questa era bella grossa.

«Diciamo che il suo schema tipico è fallito, e ora qualcuno lo sta pedinando.»

Il Custode ridacchiò. «Quell’arrogante bastardo ha fatto le cose di corsa. “Ho paura, ho paura, la copertura sta saltando.”» Il Custode fece il verso, agitando le mani come se fosse in preda al panico. «Poi ha convinto gli altri a iniziare stamattina. Ma una cosa non mi è chiara: come mai non mi ha mai parlato di te?»

Gli occhi del Custode si riempirono di luce inquisitoria.

Le labbra di Clarion si storsero in un sorriso. «Chi ti ha insegnato questi metodi da quattro soldi? Sei per caso uno della purga in pensione.»

«No, certo che no. Ma non ti ho ancora inquadrato.» Il custode scoppiò a ridere. «Hai i soldi?»

«Prima tu.» Clarion si leccò il labbro inferiore. I soldi indicavano uno scambio di qualche genere, e quello sembrava il tipo che si faceva pagare in anticipo.

«Stanotte ho preferito spedire fuori i bambini per evitare distrazioni, e adesso è pronto.»

«I libri dove sono?» Ormai lo aveva quasi incastrato. Doveva solo capire dov’erano gli appunti con i codici bancari.

«I libri? Quali?» Stupore. Il Custode stava mostrando stupore. E sembrava sincero. Peggio, tra le varie espressioni stava trapelando il sospetto.

«L’ospite.» Clarion ne approfittò per testare il Custode: contrazione muscolare dell’occhio destro e movimento pupillare. Sì. Probabilmente aveva pensato a Belthar: quindi doveva essere prigioniero nell’edificio; ma Clarion deviò il discorso. «Quello della Castal & Daer. Te lo ricordi? I libri, dove sono adesso?»

«Oh, quelli. Ma cosa centrate voi?» L’espressione di sospetto aumentò: gli occhi si socchiusero, come se lo stesse mettendo a fuoco. «Quelli non li volevano i ribelli?»

Clarion quasi non riuscì a trattenere la saliva, stava per deglutire. Credeva di averlo convinto. Era certo che il Custode pensasse che lui, Clarion, fosse un ribelle: uno degli Inquieti. Invece chi diavolo credeva di avere davanti?

«Sei proprio sicuro di volerli vendere a loro?» chiese Clarion prima che la pausa diventasse troppo significativa.

«Ma certo, volete comprarli! Quindi le cazzate tipo “ci mancano i soldi”, “siamo in una situazione difficile” erano menzogne.» Il Custode prese un calice abbandonato sul tavolo, guardò l’interno; bevve e deglutì rumorosamente.

Clarion poteva sentire il gelo del dubbio aleggiare nella stanza: aumentava ogni istante, nel silenzio. Gli occhi del golem rimanevano immobili, bianchi e tristi.

Troppo disordine, troppe informazioni in una volta sola. Ma il quadro si stava facendo sempre più chiaro. Un quadro sempre peggiore.

«Odi così tanto tuo padre?»

Il Custode si girò a fissare il golem; il sorriso del grassone divenne malvagio. «Tratto questi bambini come lui ha trattato me. E ci guadagno qualcosa. Che c’entra con i libri?»

«Stanotte hai lasciato i bambini in giro per le strade: anche l’alchimista più stupido riconoscerebbe i sintomi, e una denuncia manderebbe tutto a monte.»

Il Custode schioccò la lingua due volte, appoggiò il bicchiere e tornò a fissare Clarion. «Lamentati col tuo compagno: mi ha costretto lui a finire stanotte e non volevo bambini in giro. Raffinare la fogliaspina è già un problema di per sé; e come se non bastasse l’esplosivo ne aveva già fottuti tre.» Il Custode ruttò. «Se avessimo avuto più tempo magari… Tutto bene?»

Alla parola “esplosivo” Clarion aveva avvertito un mancamento, come una frustata di ghiaccio al plesso solare. Probabilmente era impallidito.

«Non è stato facile arrivare qua. Vediamo di passare al dunque.»

«Dammi i soldi, almeno mi libero di quella dannata vasca. Tra l’altro, il tuo amico non mi ha ancora detto come pensate di spostarla? Userete le vostre amichette?»

Fantastico. Una vasca di esplosivo e le amichette. Di che diavolo stava parlando?

«Lasciami un secondo.» Doveva capire cosa stava succedendo. Formulare un piano.

La procedura. Maledizione, in quella situazione la procedura per un’Ombra diceva di abbandonare e riportare le informazioni.

Per un Pugnale sarebbe stata approfondisci ed elimina: ecco cos’era successo a Belthar.

«Riprenditi pure. Intanto, per passare il tempo, voglio farti vedere una cosa.» Il Custode sorrise come se avesse in mente uno scherzo malvagio. Guardò il golem. «Soffri come se una lama rovente s'infilasse tra le costole!»

Il golem emise un rumore acuto. Stridette con il rumore di un mulo seviziato; si chinò, portando le mani al petto.

«Non mi stancherò mai di guardarlo, il bastardo.» Il Custode continuava a ridere.

Che diavolo stava succedendo alla mente di Clarion? Aveva mal di testa. Pulsava.

«Basta.» Clarion scattò in piedi. Rabbia. La pulsazione alla testa era rabbia.

«Va bene.» Il grassone continuò a ridacchiare, come aspettandosi quella reazione; come se lo sgarbo fosse verso Clarion. «Smetti di soffrire.»

Il golem si rialzò. Gli occhi bianchi tornarono a puntarsi su Clarion.

«A mezzogiorno avrai i tuoi soldi. Almeno coprirai il tuo dannato debito e questo bastardo potrà crepare in pace.»

«Tutto quello che volete.» Il grassone aprì le mani, come per accettare la predica. «Gli affari sono affari, anche con dei senza palle come voi.» Il Custode si sbatté in gola il resto del liquido contenuto nel calice.

«L’uscita è da quella parte.»

 

Erano ore che Clarion avanzava nel fango. Dalla bloccarda all’orfanotrofio, dall’orfanotrofio di nuovo alla bloccarda e dalla bloccarda fino a lì. Cominciava a essere troppo.

La melma era meno spessa in quella zona, al limite dei Vicoli del Condannato: appiccicava di meno, ma scivolava di più. Anche la gente stava cambiando: in mezzo ai disgraziati si poteva vedere qualche gentiluomo: impietosivano di meno, ma infastidivano di più.

Un gruppo di giovani ben vestiti passarono di fianco a Clarion: stivali di cuoio morbido e vestiti in velluto, anche se sporchi di fango. Lo fissarono con occhi spenti, qualcuno biascicò un commento, una risata singhiozzata; continuarono per la propria strada, barcollando mentre proseguivano nella direzione opposta.

Moina stava appoggiata con la schiena all’edificio da dov’erano usciti quei rampolli di buona famiglia.

«É questo il posto?»

«Sì. L’ho scritto nel biglietto.» Moina fece per accarezzarlo, ma Clarion si scostò; aprì la porta. «Aveva il mio odore, l’hai sentito?»

«Sta zitta.»

Quando Clarion passò di fianco al bancone un cameriere gli si avvicinò, accogliendolo con un inchino. «Da naso o da bocca?»

Clarion gli voltò le spalle. «Sei sicura che è ancora qui?»

Moina aprì le braccia e si indicò le labbra. Il cameriere stava per dire qualcosa ma Clarion alzò una mano, lanciandogli lo sguardo di chi era sull’orlo di una crisi di furia.

«Ho detto: sei sicura che è qui? Rispondi.»

«Allora sto zitta o posso parlare?»

«Muori.» Clarion la indicò, poi puntò minacciosamente l’indice verso il cameriere che stava tornando all’assalto. «E crepa anche a te. Se provi a fermarmi t’ammazzo.»

Non attese. Si mosse verso la porta della fumeria e la spalancò. Molte facce si girarono a fissarlo. Alcuni erano di sicuro agenti in borghese, ce n’erano sempre, per tenere d’occhio i ricchi che andavano a far baldoria in posti come quello; ma Clarion aveva deciso di non contattarli.

Entrò in una stanza laterale; e trovò Taires seduto a un tavolo. Da solo.

«Hai impiegato molto.» La voce sembrava provenire da lontano: era bassa, spenta. Taires giocherellava con un tubo, una specie di cannuccia che partiva da un’ampolla e terminava in un boccaglio. Un narghilé.

«Tu vieni con me.»

Taires si limitò a scuotere la testa.

«Arrestalo» disse Clarion alla demone.

Moina si era fermata al bordo della stanza; rimase immobile a fissare il vuoto. Le braccia, nere e mollicce, pendevano ai fianchi.

«Che diavolo hai adesso? Questa è una missione, e questo è un cazzo di ordine: arrestalo.»

Nessuna reazione, almeno non da parte della demone. Gli occhi azzurro chiaro di Taires brillavano trasognati mentre fissava Moina.

«I Pugnali del Kleg non sono addestrati a combattere mostri come quella che ti porti appresso.» Taires mise il boccaglio tra le labbra e aspirò a fondo, causando un rumore di risucchio e bollicine. Poi aprì la bocca, e sputò una zaffata di fumo che si mischiò alla nebbiolina nella stanza.

«Ma ormai avrai capito che io non sono un Pugnale.» L’alito di Taires trasformò ognuna di quelle parole in una nuvola di vapore.

Clarion sentì l’odore di fumo e fogliaspina. La droga stava facendo effetto anche su di lui. Stava diventando più lucido. Calmo.

«Rispondi alle mie domande e avrai una morte veloce, aspiramerda.» Le dita di Clarion si serrarono sul bordo del tavolo mentre lo fissava dall’alto in basso. «A cosa serve l’esplosivo?»

Taires espirò il fumo e lo risucchiò nelle narici. «Per il Ludum: un’evasione.»

Clarion scaraventò il tavolo contro l’altro.

Taires lo schivò in maniera elegante. Fluida. Si spostò proprio all’ultimo momento; fece un passo di lato e appoggiò una mano sulla nuca di Clarion. Lo spinse, o meglio lo accompagnò gentilmente sul pavimento, contro al tavolo.

Le mani di Clarion si dimenarono in aria, cercando un appiglio. Il cuore iniziò a battergli all’impazzata.

«Non voglio ucciderti» disse Taires.

Clarion lo prese per una spalla, cercando di arrampicarsi per tornare in piedi. Si sentiva debole; la vista si stava appannando.

«Ricordo la tua espressione, sai? La prima volta che ci siamo visti.» Taires si piegò sulle ginocchia, per rimanere al livello di Clarion. «Tu volevi giustizia, non sangue.»

«Che diavolo stai dicendo?» Anche parlare sembrava difficile.

«Ancora non mi riconosci.» Il sorriso di Taires divenne paterno. «Ma non ha importanza. Quello che voglio dirti è di pensarci. Quando le cose si metteranno male aprirai gli occhi, e allora potrai fare le scelte giuste. Non sei il primo a dubitare.»

La visuale si stava riempiendo di puntini neri. Un puntino più luminoso degli altri si mosse nell’aria; si spostò, fluttuando sopra la sagoma di Taires. Portava con sé un fruscio, forse un tintinnio.

Maledetta droga.

«Tu… Non sai…» Ogni parola era uno sforzo. «Io so... Quello che fate.»

«No.» Taires gli tenne la testa fra le mani, appoggiandola con attenzione sul pavimento. «Ma ti lascio un regalo: la possibilità di scegliere. Potrai decidere se fermare i ribelli o salvare il tuo amico.»

La luce si avvicinò, uno strano calore vicino al volto. Un movimento d’aria.

 

Riaprì gli occhi, ma qualcosa gli bloccava la vista.

«Per Arral, che diavolo...»

Clarion avvertiva qualcosa di molliccio vicino. Umido, freddo e si strusciava sul volto.

Lo allontanò d’istinto. La luce del tramonto entrava dalle finestra.

Clarion perse un battito di cuore quando riconobbe l’oggetto che si era strusciato sul volto: il seno marcio di Moina.

Lanciò un urlo stridulo, schizzando lontano da lei, scivolando su qualcosa di umido a terra.

«Non ti svegliavi. Ti proteggevo.» La demone rise, mettendo in mostra i denti.

Clarion tentò di parlare, ma sentì un peso premergli lo stomaco; ebbe un conato di nausea: si voltò di lato per vomitare.

Una volta, due volte. Il rigurgito raschiava l’interno della gola e gli lasciava una sensazione di bruciore acido. Riuscì a trattenere la terza sboccata.

Deglutì, pulendosi le labbra con il dorso della mano; prese profondi respiri per riprendersi, ma non riuscì a togliersi di dosso quella dannata sensazione di sudicio.

«O poverino…»

Clarion alzò una mano per tenerla lontana. Poi portò le dita alla nuca: umido. Riportò il palmo di fronte a sé: sangue misto a croste secche. Cercò di non badare alla pozzanghera di vomito sul pavimento e controllò invece la macchia scarlatta: era larga solo una spanna. Aveva sanguinato poco. Un taglio piccolo quindi: Taires lo aveva colpito con un anello avvelenato.

Trimedina probabilmente: i sintomi erano sonnolenza seguita da nausea ed era facilmente reperibile al mercato nero.

«Quanto tempo è passato?»

«Un’ora.»

«Hai sentito quello che ci siamo detti?»

«No.» Il volte della demone sembrò triste. «Non ricordo nulla.»

Clarion iniziò a camminare avanti e indietro.

«Vogliono attaccare il Ludum.» Alzò il dito indice. Un passo, un altro passo, dietrofront. «Belthar invece si trova ancora all’orfanotrofio.» Un passo, un altro passo. Si bloccò. Sollevò il medio; li usò per tamburellarsi la fronte. «Si stanno muovendo in fretta.» Fu il turno dell’anulare.

Riprese a camminare. Avanti. Indietro. Avanti. Indietro. Clarion si morse la nocca.

Tutti i clienti della fumeria era spariti; era rimasto solo il cameriere, nascosto dietro il bancone.

«Dannazione. Non è possibile.» Clarion emise un grugnito di frustrazione.

«Cosa, dolcezza?» Moina offrì uno dei suoi sguardi lascivi.

«La vasca con l’esplosivo! Non possono portarla fino al Ludum senza farsi notare, neanche con la magia. É troppo pesante.»

«Vasca di esplosivo?» L’espressione del demone si illuminò di gioia. «Sembra carino. Potremmo farci il bagno insieme. Nudi.»

«E tutti quei soldi? Da dove li tirano fuori…»

«Io non ti farei mai pagare, amore mio. Non sono come la tua fidanzata.»

«A meno che non volessero ingannare il Custode, e non pagarlo proprio.» Clarion si portò le dita alle tempie. «E il golem? Come farebbero a evitare il golem? Maledizione.»

«Sai che esistono golem capaci di soddisfare i bisogni sessuali? Esseri magici, per bisogni naturali. Ma noi demoni siamo meglio.»

«Esplosivo. Alchimia. Esplosivo. Alchimia. La vasca. Il golem. Come faccio a spostare una vasca senza farmi notare?»

«Sesso in una vasca. Un’alchimia esplosiva.» La demone lanciò un gemito: si chinò, appoggiando le mani a un tavolo, per mettere in mostra il sedere.

Clarion non fece in tempo a voltarsi per evitare quello spettacolo. Si girò in ritardo, senza però riuscire a trattenere un’espressione inorridita.

Si immobilizzò. Trattenne il respiro, e infine esalò.

«Ma certo. Farmi voltare da un’altra parte: un diversivo!»

«Ne ho in mente uno. Di diversivo.» Moina mosse il bacino avanti e indietro.

«La vasca non c’entra, magari non esiste proprio.» Clarion agitò la mano, come per allontanarla. «Hanno altri mezzi per causare un’esplosione?»

«Magia naturale. Ne sento ancora l’odore.»

«Sei sicura?»

La demone arricciò le labbra e annuì. «Assolutamente. La magia naturale può usare gli elementi. Per un’esplosione servirebbe aria, fuoco e terra.»

«Taires è abbastanza potente?»

«No. Gli servirebbe un catalizzatore carico di emozioni. Se vogliono fare una breccia nel Ludum devono essere molte. Molto forti. L’amore che provo per te forse basterebbe. Forse.» Gli fece l’occhiolino.

«Cosa può essere usato come catalizzatore?» Clarion era convinto di conoscere la risposta, ma meglio ripassare le informazioni.

«Materiale organico, meglio se magico.»

«Come la fogliaspina?»

«Come la fogliaspina, sì. Caricare la droga di emozioni.» La demone aspirò l’aria tra i denti, assumendo un’espressione rapita. «Un esperimento magnifico. Posso averne un po’.»

«Emozioni di dolore possono andare bene?»

«Dolore? Come?» Il sorriso di Moina si smorzò, aveva assunto un’aria più seria. Troppo seria a dire il vero. A Clarion non piacque la luce che stava spuntando in quegli occhi ocra.

«Bambini torturati. Innocenti costretti a commettere crimini. Senso di rivincita. Odio.»

A ogni parola il sorriso della demone diminuiva; l’espressione diventava sempre più dura. Abissale. Moina aveva smesso di respirare.

«Funziona. Una droga carica di queste emozioni? Dove?» Il tono della demone non era scherzoso come al solito. Sembrava sbrigativo. Poco controllato. Preoccupante.

La pelle delle demone si stava coprendo di gocce scure; un odore saturò la stanza: puzza di carogna ammuffita.

«La vogliono usare per far saltare il Ludum.» Tutti e tre gli occhi gialli lo fissavano con aria calcolatrice, poco promettente. «Ma ora ho un piano.»

«Sarò vicina all’esplosione? Potrei addirittura fermarla, assorbendo tutte quelle emozioni.»

Gli avevano detto che i demoni del Kleg erano obbligati a rispondere al senso della domanda, senza cavillare sulle singole parole. Ma Clarion cercò lo stesso di soppesare a fondo quello che stava per chiedere: «Davvero? Sei certa di sventare l’esplosione senza peggiorare la situazione?»

Il demone grugnì. Fece per rispondere. Ringhiò di nuovo, sbattendo la mandibola. Gli artigli stridettero quando si grattò i denti.

«No. Non è sicuro.» Gli occhi gialli assunsero una tonalità rossastra. Le pustole nere si contorsero, mentre soffiava tra i denti. «Ma pensaci bene prima di decidere. Pensaci molto bene.» Le parole rallentarono; la demone inclinò il viso in avanti, serrando lo sguardo su Clarion. «Perché il mio contratto un giorno scadrà. E la mia priorità sarà bollirti le palle nel tuo vomito.»

Clarion voleva rimanere impassibile. Aprì la bocca per parlare, e si fermò. La riaprì. La richiuse.

Deglutì.

E infine diede gli ordini alla demone. No. Non sarebbe stata vicina al Ludum.

Moina si incazzò. Si incazzò di brutto.

 

Infiltrazione. Una specialità notevole, no? Clarion cercava di convincersene mentre tentava di forzare a mani nude una tavola di legno marcia.

Si trovava nella soffitta dell’orfanotrofio. Oltrepassare il tetto era stato facile: tegole vecchie e fissate male. Uscire da quella soffitta un po’ meno: assi vecchie, ma fissate meglio.

Decise di lasciar stare il legno, troppo rumore, e si spostò per cercare una botola. Fece attenzione a non pestare le assi più marce, per evitare scricchiolii; richiamò alla mente la cartina che aveva memorizzato, mentre cercava dei punti di riferimento.

Indossava la maschera di cuoio del Kleg, impostata sulla visione al calore.

Purtroppo la soffitta era di un azzurrino omogeneo e gli oggetti avevano contorni sfumati. Il vantaggio era che poteva vedere attraverso le pareti.

Riusciva a riconoscere una sagoma scarlatta oltre il pavimento: questa si era posizionata davanti a un grumo arancione scuro, più largo. Probabilmente un assembramento di bambini.

Lontana, in un’altra stanza, aveva già individuato la sagoma rossa che stava cercando; sembrava legata a una sedia: doveva essere Belthar.

Clarion trovò una fessura per sbirciare. Si chinò e appoggiò la testa sul pavimento. La maschera si regolò automaticamente, permettendogli di osservare la scena con la visione normale.

La macchia di calore più grande si attenuò, fino quasi a sparire; tramutandosi nel gruppo di bambini: stavano a terra, abbracciati gli uni agli altri.

«Bene. Con chi iniziamo oggi?» chiese la voce del Custode.

I bambini tremarono. Alcuni indici, piccoli e magri, puntarono una ragazzina dai capelli scuri che tremava; grazie alla maschera Clarion riusciva a sentire i dentini che battevano con un ticchettio irregolare.

«Come? Non capisco. Chi è la prescelta di oggi?» Il Custode si stava limando le unghie. «O preferite che sia io a scegliere?»

Due bambini spinsero la ragazzina lontano dal gruppo: questa si girò e cadde di schiena. Si rialzò, singhiozzando; provò a correre per tornare a mischiarsi con gli altri.

Un bambino la colpì al volto con il palmo aperto; un altro la prese per i capelli, spingendola di nuovo fuori dal gruppo.

«Bravi. Bravi bambini. Così ubbidienti.» Il Custode appoggiò la lima e prese un boccale di vino. Lo appoggiò alle labbra e bevve: due sorsate rumorose. Ruttò dalla soddisfazione per poi tornare a godersi lo spettacolo della bambina prona sul pavimento. «Soddisfare i grandi è importante per capire come funziona il mondo. Non posso proteggervi per sempre.»

Le sedia gemette quando il Custode fece pressione sui braccioli per alzarsi. Si avvicinò e accarezzò la guancia della bambina.

Fu il turno della bambina a gemere; si portò le mani alle orecchie, raggomitolandosi sul pavimento.

Clarion alzò la testa; scosse il volto e strinse i denti. No. Non doveva andare così. Era troppo presto. Doveva aspettare.

La bambina urlò. Un urlo stridulo. Un urlo di aiuto.

Clarion sollevò un piede per dare un calcio alla botola. Calò lo stivale con tutte le forze che aveva. Percepì l’impatto, il legno che cedeva; la sensazione di vuoto mentre cadeva. Piegò le ginocchia e rotolò per attutire l’atterraggio.

Insieme a lui scivolò giù una nube di polvere che aleggiò nell’aria, per andare a posarsi tutt’intorno.

Il Custode lo fissò con un’espressione che lottava tra imbarazzo, sorpresa e paura: aveva le mani sui pantaloni, immobilizzato un istante prima di toglierseli.

Lo sguardo di Clarion invece puntava su qualcos’altro. Qualcosa di grosso che avrebbe dovuto gestire, dannazione.

Qualcosa con due occhi bianchi e tristi.

«Lascia il prigioniero ed eviterai il Ludum» disse Clarion.

Il Custode ammiccò, tirò su i pantaloni e si girò verso il golem. «Immobilizza l’intruso.»

Clarion balzò dietro un tavolo, e lo ribaltò per usarlo come barriera. Una gamba di pietra incontrò il legno e lo frantumò con uno schianto.

Gli altri ostacoli non ebbero maggiore successo. Un colpo della mano a forma di cubo scaraventò il comodino fuori dalla strada del golem; la sedia si ruppe al contatto con la pelle di pietra, e il pugnale si limitò a rimbalzare con un suono metallico.

Una parete bloccò la strada di Clarion: l’angolo della stanza. Le via di fuga rimanenti erano coperte.

L’ombra del golem lo sommerse. Clarion sentì la pressione della pinza stringergli il collo. Il terreno gli mancò sotto i piedi: rimase appeso. Poi a mancargli fu l’aria.

Le dita di Clarion strinsero le estremità della pinza: la pietra era fredda, troppo dura da smuovere.

Dunque era così che si sentiva un impiccato: i muscoli del collo bruciavano mentre puntini neri sbattevano contro puntini bianchi, offuscandogli la vista.

Clarion distinse a malapena le parole del Custode; percepì di più il pavimento gelido sbattergli contro le natiche, in contrasto con il caldo all’orecchio. Qualcosa gli strappò la maschera dalla testa e il calore aumentò.

«Hai solo una possibilità: dimmi chi ti ha mandato.»

I puntini neri e bianchi sparirono e la brace riempì la visuale: Clarion aveva il mento premuto sul bordo in pietra del falò. Il calore all’orecchio aumentava, stava già superando la soglia del dolore.

«Se mi ferisci arriveranno i Bracchi!»

Un tronco bruciato scoppiettò; le scintille gli sfiorarono la guancia.

«Furbo da parte tua lasciarle fuori.» Il Custode mangiò un dolcetto appoggiato poco lontano dalla testa di Clarion. Con l’altra mano stava agitando un attizzatoio, con la punta di color arancione vivo. Lo sollevò togliendolo dalle braci del fuoco.

«Sono del Kleg. Abbiamo fermato i tuoi compagni. Perché credi che nessuno sia passato a ritirare l’esplosivo?» Le braci roventi contrapposte al gelo del pavimento acuivano la sensibilità: gli facevano sentire ogni sfumatura del dolore in aumento.

«Giusto. Spiegami quello.»

Il Custode giocò con l’attizzatoio, muovendo di nuovo le braci: avvicinandole all’orecchio di Clarion. Fumo e sfrigolio.

L’orecchio iniziò a fischiargli. Clarion mugugnò. No. Non avrebbe urlato.

Le mani di Clarion strinsero la pinza del Golem: tese i muscoli, cercando di schiuderla.

«Lascia stare mio padre.» L’attizzatoio lo colpì sulle dita.

Clarion gemette e lasciò la pinza.

Gli occhi dei bambini. Maledizione. Lo stavano guardando, e nei loro occhi c’era soddisfazione. Gioia. Stava dando spettacolo al posto loro.

Se lo meritava: si era comportato da idiota.

«Mi manda il re. Perché abusi di tuo pad...» Clarion grugnì per una fitta di dolore. «Abusi dei vecchi privilegi da notaio di tuo padre.»

«Il re?» Il Custode rise a crepapelle. «Che guaio, mi ha scoperto. Padre, vidimagli una costola!»

La mano cubica del golem ruotò: rumore di pietra che sfregava contro la pietra; si bloccò con un clack. Il cubo indietreggiò, il braccio si caricò. Scattò.

Un’esplosione di dolore al petto: stavolta Clarion urlò. Lottò per prendere aria e soffrì ancora di più mentre i polmoni si riempivano.

«Avete comprato il Kleg. Avete comprato i Bracchi. Avete comprato… Tutto maledizione. Avete comprato tutto.» Clarion gridava ogni parola. «Solo il re poteva scavalcarvi.»

Il Custode si grattò il mento; appoggiò l’altra mano con l’attizzatoio al fianco. La punta arroventata ondeggiava a una spanna dall’occhio destro di Clarion.

«No. Non può essere. Il re non avrebbe mandato un solo…»

Il Custode cadde a terra quando la terra vibrò.

Il golem invece mantenne l’equilibrio nonostante la scossa. Clarion ne approfittò: diede uno strattone con un colpo di reni; tirò un calcio per allontanarsi dal golem e usò tutta la forza delle braccia per liberarsi da quella morsa.

Niente. Sembrava di lottare contro una parete di granito.

Una libreria si ribaltò, finendo a terra con uno schianto; altra polvere scivolò giù dalla botola aperta del soffitto.

La scossa diminuì d’intensità, fino a sparire.

«Per i capezzoli di Lysinia, che diavolo è successo?» I bambini si stringevano spaventati agli angoli della stanza mentre il Custode si rialzava. Recuperò l’attizzatoio. «Rispondi. Cos’è successo?»

«Gli Inquieti ti hanno tradito. Non gli servi più. Hanno preso l’esplosivo.»

«Nessuno può averlo portato via.» Il Custode fece una smorfia di rabbia. «Padre. Autenticagli il braccio sinistro.»

«Aspetta...»

Il rumore dell’ingranaggio che spostava il timbro. Pietra contro pietra. Di nuovo il clack.

Un altro suono. Il suono di pietra contro la carne e lo schiocco di qualcosa che si rompeva: l’osso del braccio di Clarion si spezzò. Il fuoco dell’agonia prese a pulsargli nel corpo.

L’urlo stavolta fu prolungato. I puntini neri tornarono a dargli una speranza: l’oblio, allontanarsi dal dolore.

Doveva resistere.

«Devono.» Clarion sentiva la propria voce debole. Lontana. «Sono stati qua. Con la magia. Preso il…»

Smise di parlare quando percepì una risposta: aveva la tonalità di un’imprecazione.

Passi che si allontanavano. Rumore di chiavi che tintinnavano. Una serratura scattava, una porta si apriva.

Clarion atterrò sul pavimento: la pinza lo aveva lasciato.

Tutto rimbombava. A ogni respiro le costole gridavano d’agonia. Dall’orecchio destro riusciva a sentire solo il fischio del dolore. Il braccio sinistro pulsava; provò a muoverlo, sentì una fitta e i puntini neri riapparvero. Doveva resistere.

Usò il braccio sano per mettersi in ginocchio. Riconobbe la maschera, non poteva abbandonarla. La indossò: il fresco del cuoio gli diede sollievo; ma i lacci si erano allentati, meglio toglierla. La appese in qualche modo alla cintura. Appoggiò un piede e si alzò.

Il golem stava fermo. Occhi spenti. Neri.

Una porta era aperta. Qualcuno fuoriuscì da essa: il Custode guardò prima Clarion, poi il padre golem.

«Uccidi il manigoldo.» Un sorriso si formò sul viso del Custode. «L’esplosivo è ancora qua. Non perderò altro tempo ad ascoltare menzogne.»

La visione di Clarion non era fissa: o il mondo si muoveva oppure lui stava barcollando. Si pulì le labbra con il dorso della mano: saliva calda, aveva sbavato dal dolore.

Provò una sensazione allo stomaco: qualcosa di rovente si agitava nelle interiora. Altro dolore?

Clarion si chinò a prendere l’impugnatura dell’attizzatoio mentre familiarizzava con la sensazione: quel calore era odio.

«Congratulazioni, Custode.» La testa era tornata fredda, prima un senso di gelo, ma tutto stava tornando normale. Il dolore al petto e al braccio erano diventati trascurabili. Sorrise di un sorriso malvagio. «Sono l’ufficiale addetto a notificare una comunicazione. Riguarda il tuo debito.»

L’espressione del Custode divenne prima circospetta, poi sempre più preoccupata. Un passo avanti di Clarion, un passo indietro del Custode: aveva capito.

«Qualcuno ha deciso di estinguerlo. Oggi. Ora che l’hanno fatto sei esonerato dalla tua qualità di Custode. Per qualsiasi lamentela potrai rivolgerti all’Ufficio Reclami. Al municipio.»

Il Custode sollevò le mani per proteggersi, ma si voltò verso un rumore: i passi dei bambini.

Così non fece in tempo a schivare l’attizzatoio: l’impatto fu tra la punta arroventata e lo zigomo del grassone. Uno schizzo di sangue volò in aria e cadde sul pavimento. La carne del grassone ballonzolò mentre il corpo si inclinava sempre di più, fino a cadere. Atterrò con una specie di plop.

Le mani del Custode si portarono all’occhio, che era diventato una macchia rossa. Clarion provò un senso di leggerezza e appagamento.

Non riuscì a godersela. Fu travolto.

Più corpi lo urtarono all’altezza dell’anca. Le urla saturarono la stanza: urla selvagge, d’odio.

Una bambina iniziò a tirare calci al corpo a terra, poi un ragazzino. Un altro. Un altro ancora.

Il Custode si rannicchiò in posizione fetale, ma calci, pugni, graffiate e morsi lo raggiungevano ovunque. Braccia, gambe, pancia, schiena, inguine, occhi, bocca: tutta la ciccia ondeggiava. La faccia in particolare si stava trasformando in un grumo rosso vivo.

Clarion abbandonò l’attizzatoio e prese un bambino per la collottola. «Dovete andarvene. Subito.» Il ragazzo trattenuto si voltò, lanciò un grugnito; e lo morse. Clarion lo lasciò andare.

Dalle porte della stanza iniziarono a comparire altri bambini.

La calca spingeva per avere il proprio posto. Ottenere la propria piccola vendetta.

Le urla d’agonia del Custode si riuscivano a malapena a sentire; interrotte più volte dai colpi, e schiacciate dalle grida di furia. Una canzone che andava al ritmo delle percosse sulla carne.

Clarion prese lunghi respiri, facendo un passo indietro.

Non poteva farci nulla.

Ringhiò. Un’idiozia l’aveva già commessa. Non avrebbe fatto anche la seconda. Prese altri respiri.

La procedura. Seguire la procedura.

 

Le chiavi pendevano ancora dalla serratura dove le aveva lasciate il Custode. Clarion le prese e si allontanò dalla scena, cercando di bandirla dalla memoria.

Si spostò nei corridoi di pietra e mattoni, riportando alla mente la piantina che aveva memorizzato. Schivò un gruppo di bambini e arrivò davanti a una porta.

Provò una chiave dopo l’altra, girandola con la mano sana, fino a trovare quella giusta. Aprì, ed eccolo. Trovato.

Belthar. La faccia gonfia e viola; il respiro acquoso, fischiante. Lividi verde blu coprivano il petto: costole spezzate probabilmente. I pantaloni zozzi di sangue secco avevano uno strappo sul polpaccio, da questo fuoriusciva la punta scheggiata di un osso.

Clarion alzò il palmo verso il prigioniero. Belthar annuì, come per dire che comprendeva le priorità.

Due bambini spuntarono ai lati della porta, cercando di intrufolarsi. Clarion ne afferrò uno per la collottola e lo lanciò fuori.

L’altro esaminò la stanza, puntando lo sguardo sui vari oggetti: una vasca in rame piena di liquido rosa, braci spente, alcuni stracci; indugiò l’attenzione sulla frattura esposta.

La mano di Clarion si abbassò per catturarlo, ma il bambino lo schivò e uscì: più che intimorito sembrava poco interessato. I due ragazzini presero a confabulare alla porta, indicando in direzioni differenti.

Clarion si diresse verso la vasca. Estrasse una sfera color giada da una tasca. La soppesò: era liscia, pesava poco, così poco che sembrava vuota.

Tornò a controllare il compagno. Doveva decidere.

Gli alchimisti gli avevano descritto il liquido esplosivo: color rosa, liscio come l’olio e da contenere in vetro o rame. Non ci aveva creduto fino in fondo, ma l’informazione era confermata.

Non poteva rischiare di lasciare la vasca a disposizione degli Inquieti, ma era un bel rischio.

Belthar aveva gli occhi rigati di rosso, ma erano ancora vivi, attenti. Stava controllando i bambini: affrontavano una ragazzina con in mano un candelabro d’oro a tre braccia. Lo sollevava vittoriosa e stava facendo cenno agli altri due di seguirla.

Lo sguardo di Clarion tornò a posarsi sulla superficie liscia del liquido rosa. Inutile pensarci: non si sarebbe mai perdonato a mollarlo lì. Né l’esplosivo né il compagno.

Riaprì la mano e voltò il palmo. La sfera atterrò sul liquido, galleggiò mentre si scioglieva: quando il liquido rosa la inghiottì si alzò odore di resina.

La mascella di Clarion si strinse, gli occhi si chiusero.

L’unico suono erano gli schiamazzi.

Riaprì le palpebre.

Bene. Almeno quella stava funzionando.

Belthar stava ancora fissando i bambini che si allontanavano lungo il corridoio. Clarion si avvicinò; prese il polpaccio con la mano sana, non badò al sangue secco sotto le dita e tirò la frattura esposta.

Non un urlo, neanche un gemito. Forse era svenuto. Alzò la testa per appurarlo.

Belthar era cosciente: gli unici segnali di dolore erano una patina di sudore e i muscoli contratti attorno agli occhi.

Clarion gli prese un braccio, mettendoselo sulle spalle per aiutarlo ad alzarsi.

«Mollami, Cla.»

«Il sacrificio, la patria, bla bla bla. Risparmamiela» Provarono ad avanzare, ma sbandarono verso un muro. Si appoggiarono uno sull’altro per riprendersi dallo sforzo.

«Devi chiamare i Bracchi. Subito.» Belthar tossì, cercò di allontanarsi, ma era troppo debole.

«Tutti i militari sono al Ludum.» Con un colpo dei fianchi Clarion riprese a camminare, trascinando con sé il compagno.

«Una zecca clandestina, gallerie sotterranee, presse da stampa.» Belthar grugnì, finalmente un segno di dolore. La rabbia sembrava metterlo in difficoltà, ma gli dava anche la forza di ribellarsi. «É solo l’inizio. Laboratorio alchemico, armerie, postazioni difensive, magazzini, depositi di droga...»

«Lo so già.» Parlare e portare quel peso gli faceva urlare le costole da dolore; ma come faceva Belthar a fargli la predica in quella situazione? Clarion riuscì a schivare due bambini che trascinavano un sacco. Raggiunse la porta d’uscita e appoggiò il compagno al muro.

Girò la maniglia e aprì il battente di bronzo: la porta scricchiolò e si bloccò a metà strada, ma si riusciva a passare. La parte difficile fu Belthar: il bastardo si era lasciato cadere a terra.

«Sono andato, Cla. Sono già morto.» Belthar ringhiò di rabbia e dolore. «Insabbieranno tutto. Questo posto è coperto dai nobili, da corrotti del Kleg e…» Altra tosse. Un rivolo di sangue uscì dalle labbra. Maledizione, se era una ferita interna non sarebbe sopravvissuto a lungo.

«É la procedura.» Clarion sollevò il compagno con un colpo di reni. Strinse i denti per non cedere alla sofferenza. La costola riprese a pulsare. «Non c’è tempo.»

Uscirono. La nebbia e l’oscurità li inghiottirono.

«No. Stai forzando la procedura. Qua era pieno di Inquieti.» Sulle labbra di Belthar si stavano formando delle bolle di sangue. «É una fortezza, fottuta minchia. Devi chiamare i Bracchi prima che tornino i ribelli. Non possiamo...»

Clarion spostò male il braccio e sentì come se una brigata di diavoli stesse usando la sua cassa toracica come tamburo, adoperando mazze chiodate e arroventate.

Perse la fine del discorso di Belthar, ma se l’immaginò.

«Basta con questi deliri» gli rispose. Ogni passo faceva male.

«Sei solo una femminuccia.» Belthar ringhiava, si agitava: se continuava così rischiava di uccidersi. «Ci sono cose più importanti di me.»

«Mi sono occupato del posto.» Clarion guardò la figura nella nebbia, nascosta in un vicolo. Tre occhi color ocra brillavano immobili: Moina.

«Menti. Lasciami.» Con uno strattone Belthar riuscì liberarsi; cadde a terra.

La bocca di Clarion si aprì per prendere un lungo respiro. Si chinò senza badare al dolore alla costola e prese Belthar per un avambraccio. Iniziò a trascinarlo per raggiungere l’angolo dove li aspettava Moina. Andò in apnea, i respiri causavano troppo sofferenza.

Un passo, un altro passo. Maledizione. Scacciò i puntini neri. Un altro passo.

Qualcuno si stava muovendo sulla strada: grappoli di uomini in fuga. Il primo gruppetto si fermò all’entrata dell’orfanotrofio; rimasero a coprire la zona, lasciando entrare altri uomini armati. I ribelli stavano rientrando.

«Maledizione» disse Clarion a denti stretti. Si pentì subito di aver perso aria per imprecare. Un altro passo.

Un altro ancora.

No. Non ce la faceva più. Cadde. E sentì il muro dietro di sé.

Era arrivato. Aveva il fiatone, il freddo gli stava togliendo sensibilità, e gli sembrava di respirare fuoco: il petto bruciava ad ogni movimento. Ma, dannazione, ce l’aveva fatta.

Guardò Moina.

«Curalo!»

La demone lo fissò con i suoi occhi ocra; si chinò su Belthar.

«La cura non è il mio forte e ho poco potere.» Moina si girò a fissarlo. «Non sopravvivrà comunque.»

«Curalo lo stesso, per guadagnare tempo. I sacerdoti faranno il resto.»

Moina si chinò su Belthar e gli appoggiò una mano sul petto. «Lo hai mosso troppo, non arriverà alla Chiesa.»

«Curalo e basta.» L’urlo gli costò un’altra fitta di dolore. Clarion si accasciò, portando le mani sulla costola. Guardò oltre la nebbia: ondate di ribelli si stavano riversando nell’orfanotrofio. I sani trascinavano con sé i feriti.

Anche gli occhi di Belthar erano fissi su di loro.

«Come?» La demone avvicinò l’orecchio alle labbra di Belthar.

«Dice di curare te.» Moina si alzò. «Di lasciar stare lui.»

«Non azzardarti.» La mano sana di Clarion si alzò per allontanarla. Provò a spingerla, ma Moina lo prese per il polso e lo spinse contro il muro.

«La vostra bontà mi fa ribrezzo.»

Il bruciore alla costola aumentò; Clarion vide pulsare di rosso.

«Sì, la mia cura fa un po’ male.» La demone rise, leccandosi le labbra. «E non sai quanto mi spiace lasciar morire il tuo amico.»

«No.» Più si agitava più Moina lo spingeva contro il muro. La carne viscida, la pelle ruvida; gli artigli scottavano: gli stavano ustionando il polso. «Non puoi. Non è in grado di… Yeeargh.» Moina gli aveva raddrizzato il braccio rotto.

«Urli come una bambina. É più anziano e, a differenza tua, addestrato a gestire il dolore: lui dà gli ordini.» Si voltò a guardare Belthar, in una pozza di sangue sulla strada. «E morirà sulla strada, come un verme che soffoca nella merda di cane.» I denti spuntarono nel sorriso di Moina.

Il dolore lo trafisse senza tregua, come un ago rovente che gli attraversava il costato. L’agonia lo stava stuprando: il cuore accelerò a ritmo insostenibile, ogni battito faceva circolare nel corpo ondate di sofferenza.

Cessò quando gli artigli di Moina lo lasciarono.

A Clarion rimase una sensazione di prurito; si accorse di sbattere i denti dal freddo.

«Fatto. Ho solo raddrizzato il braccio e fissato meglio le costole, non posso fare…»

Clarion riuscì a reggersi in piedi, rimanendo appoggiato alla parete. L’onda d’urto sbalzò invece la demone: Moina volò per aria, rimbalzò contro il muro per poi atterrare con la faccia nel fango.

La luce dell’esplosione accecò Clarion. Una sassaiola di pietre, mattoni e altre schegge sbatterono contro il muro nell’angolo che aveva scelto per coprirsi.

L’odore di pasta alchemica misto a carne bruciata saturò la notte. La scena divenne più nitida mentre la vista gli tornava. L’esplosione aveva dissipato la nebbia e alzato una nuvola di polvere mista a brandelli di carta carbonizzata. Anche il freddo era sparito.

Clarion controllò per prima cosa Belthar. Giaceva ancora nella pozza di sangue, ma non era stato colpito dall’esplosione. Sembrava ipnotizzato a fissare un elmo ammaccato e sporco di sangue che rotolò fino a impantanarsi in una buca piena di melma.

La notte fremeva di gemiti di dolore misti alle grida di aiuto. Ma dovevano essere sopravvissuti ben pochi Inquieti: solo una manciata dei corpi sulla strada si muovevano ancora.

Sorpresa. Credevate di essere arrivati al sicuro, invece...

L’orfanotrofio bruciava, avvolto da fiamme color rosso vivo. Era diventato un cumulo di macerie, circondato da un’aura scarlatta come le fiamme. Questo alone di energia riluceva nella notte e andava a incanalarsi in una scia che finiva dritta negli occhi della demone, sembrava assorbirla.

Moina fluttuava all’interno di un globo rossastro.

Bolle nere scoppiavano su tutto il corpo della demone: la carne ribolliva, crepitava, ma la bolla d’energia sembrava risucchiare i suoni.

Le macchi di fango che aveva sul corpo si vaporizzarono. La pelle da nera divenne verde, poi grigia, bianca e alla fine acquisì un bel color pesca. I capelli si sciolsero e ondeggiarono, divennero lisci e rossi, intonati all’aura d’energia.

I seni si gonfiarono, divennero grandi come mele; acquisirono rotondità. I capezzoli divennero turgidi mentre la bocca della demone si spalancava in un urlo di piacere. Anche quel suono fu inghiottito dalla bolla. Fu il turno dei fianchi: si fecero flessuosi e lisci. L’occhio centrale sulla fronte si chiuse. Gli ultimi a cambiare furono mani e piedi, rimpicciolirono fino a diventare piedi e mani da donna, eleganti e soffici. Gli ultimi impulsi rossi furono inghiottiti negli occhi della demone. Cadde a terra. Cadde in piedi.

Nuda e bellissima. Prese un respiro, ammiccò due volte; scosse la testa.

Alzò una gamba, per guardarsela. Sollevò le mani ai seni e li strinse emettendo un gemito.

«Bambini violati, l’odio di un figlio.» Anche la voce era cambiata, sembrava più vellutata. I denti, bianchi e candidi, erano però rimasti appuntiti. «Oh. Frustrazione, tortura, impotenza, pestaggi brutali.» Moina saltellava a piedi nudi nella melma, lasciando impronte nel viscidume. Impronte perfette, ma con una particolarità: fumavano, come se bollisse. «E un omicidio di massa. Oh amore. Tu sai come soddisfare una donna.» Moina gli fece l’occhiolino, gli occhi erano due sfere di colore cangiante, ocra e rosso, senza pupilla. Appoggiò la mano candida su Belthar. «Se questo tuo amico ti ha ispirato così tanto meglio salvarlo, no?»

Un gruppo di Bracchi avanzava in formazione sulla strada, si stavano avvicinando.

«Fatto. Stabilizzato.» Moina lo guardo con espressione supplicante; anche se gli occhi ocra lo inquietavano. «Non posso fare di più. Mi perdoni, amore?»

«Portalo ai sacerdoti.»

«Sai, curare non è la mia specialità.» Moina sollevò il corpo di Belthar senza difficoltà, lo mise in spalla. «La mia specialità e provocare piacere. E vorrei tanto farti scoprire...»

Le spalle di Clarion si erano già voltate: si stava allontanando.

«Ma, dove vai?»

«Mi sono ricordato dove l’ho visto. Vado al Ludum.» Le gambe di Clarion iniziarono a correre.

«Va bene. Ti aspetto là.»

Una ventata d’aria calda: qualcosa gli era sfrecciato sopra la testa. Un risolino si allontanò, ma quando alzò lo sguardo Clarion vide solo un puntino rosso sparire nel muro d’oscurità. Controllò dietro di sé: Belthar e Moina erano scomparsi.

 

Macerie, cadaveri e moribondi riempivano la piazza di fronte al Ludum. La maggior parte dei corpi portava sciarpe, mantelli o altri indumenti verdi: il colore degli Inquieti. Un panorama molto simile a quello che aveva lasciato. Gran brutta giornata per i ribelli.

La nebbia si mosse e una brezza tiepida sfiorò l’orecchio di Clarion. Lo sventolare di un tessuto; il suono di qualcosa che atterrava in una pozza di sangue.

Un risolino si contrappose ai gemiti di dolore che ammorbavano l’aria, e alla puzza di sangue si mischiò profumo di mandorla.

«Questi lamenti sono come fusa alla notte.» La voce era dolce.. Una presa morbida agguantò il braccio rotto di Clarion. Ma non causò dolore, fu anzi molto piacevole. «Romantico, ma niente in confronto al tuo regalo, tesoro.»

Moina indossava scarpe con tacchi rossi; la gonna lasciava scoperte le caviglie, imbrattate del sangue su cui camminava, o meglio, sguazzava.

«Che hai fatto?»

«Stavi facendo tardi. Così mi sono messa addosso qualcosa.» Moina sollevò le braccia per mostrare le maniche ad angelo del vestito. La seta svolazzò immacolata, al contrario della gonna che si stava riempiendo di chiazze vermiglie e viscide. «Un corpo come il mio dev’essere venerato con vestiti adatti per risaltare le...»

«E falla finita: tieni le poesie idiote per quando tornerai nell’abisso» disse  Clarion. «Che hai fatto al mio braccio?»

Moina accarezzò il braccio in questione, sprigionando un’ondata di piacere che partiva dal punto dove lo toccavano le dita e gli finiva direttamente nel cervello. «Posso invertire il dolore con il piacere: è facile.»

«Fantastico. Così se mi staccano un braccio avrò un orgasmo.» L’arto in questione si allontanò dalla presa di Moina. «Smettila subito.»

«Sai che il dolore ben dosato può essere usato per amplificare il piacere?» Moina gli si parò davanti, strusciando i seni sul petto di Clarion; gli accarezzò la guancia mentre avvicinava le labbra alle sue. «Può avere degli effetti così…»

Clarion la spinse. «Preferisco sopportare. E stammi lontana. Siamo ancora in missione.»

Moina appoggiò indice e medio alle labbra, come pensierosa. «Eppure qua sembra tutto finito, amore mio. »

Clarion continuò ad avanzare, attento a evitare sangue e cadaveri.

Le porte del Ludum erano crollate sul lato destro, ma il lato sinistro reggeva: metà dell’arco d’entrata rimaneva ancora in piedi. Al centro la figura di una donna piena di crepe: un bassorilievo spezzato come una vedova mutilata.

Quattro guardie difendevano la zona: una stava bendando la testa di un ferito, le altre due controllavano la zona.

Clarion prese la maschera del Kleg dalla cintura e la indossò. A parte i falò e le guardie non sembravano esserci altre fonti di calore.

I tacchi delle guardie schioccarono, portandosi sull’attenti con la mano destra sulla spalla quando lo videro avvicinarsi.

«Signore!»

«Qualcuno è passato di qua?»

«Nessuno. Le maghe hanno controllato l’area: gli incantesimi di costrizione hanno retto l’esplosione.»

«Anche nelle zone dove il muro è crollato?»

«Sì, signore.»

«Sia in entrata che in uscita?» chiese Clarion.

«Per entrare… nel Ludum?» Tre paia di sopracciglia si alzarono. Anche il ferito fece un tentativo, ma la benda gli bloccò la fronte a metà.

«Sì.»

«Signore, sono sicuro di no, signore.»

Il soldato stava mentendo. Almeno sulla certezza: Clarion era pronto a scommetterci tutte le ossa ancora integre. Meglio intimidirlo un po’, giusto per rassicurarsene.

Continuò a fissarlo, in silenzio.

Il ferito invece guardava al fianco di Clarion. «Questo non è un posto per portare una signora.»

«Chi? Lei?» Clarion guardò Moina: la demone stava ammiccando alle guardie. «É un demone autorizzato al servizio del Kleg.»

«Ah» si limitò a dire il ferito.

Una goccia di sudore scese sulla fronte dell’altra guardia. «C’è altro, signore?»

Il soldato sembrava solo provato, forse non era proprio così sicuro che nessuno fosse uscito, ma non mostrava alcun segno di essere un corrotto.

«No. Ora devo controllare.»

Clarion oltrepassò l’arco senza badare agli sguardi delle guardie.

I portoni d’accesso si aprivano su un corridoio dove sarebbero potute passare due, o forse perfino tre, carrozze l’una di fianco all’altra. Le pareti erano in pietra e terminavano su un cortile. Dopo il primo anello di mura partiva un sentiero in pietre coperto di simboli che brillavano di luce bianca. Oltre c’era il secondo cerchio di mura; il portone successivo pendeva da un cardine e lasciava intravedere solo una zona buia. Non riusciva a penetrarla neanche con la visione magica della maschera. Probabilmente era protetta da una porcata delle maghe.

Nessuna fonte di calore a parte, be’, a parte Moina. La demone irradiava un’aura di calore bianca, come se fosse più calda del normale. Niente di sorprendente, ma interessante.

«Come mai non ti hanno riconosciuto?» Clarion si sedette su una pietra, nascosta dietro un pezzo di muro crollato.

«Illusioni.» Moina ammiccò. Strano. Gli occhi della demone, visti attraverso la maschera, erano neri.

«Quindi anch’io vedo solo un’illusione.»

«No, amore.» Il corpo della demone era morbido e caldo quando si sedette sulle sue gambe. «Il contratto dice che non posso ingannare i membri del Kleg.» Gli tolse la maschera e gli passò le dita tra i capelli. La mano proseguì, scivolando lungo la spina dorsale, strappando a Clarion un brivido di piacere: lo stava suonando, come se fosse uno strumento.

Ed era brava: le corde dentro Clarion vibravano. Era paralizzato dal piacere.

Moina gli sfiorò il collo con un bacio, sulla gola: sulla vena dove pulsava del battito cardiaco. Il respiro della donna gli accarezzò le labbra quando si avvicinò per baciarlo.

No. Della demone. Quella non era una donna. La spinse via. E con uno scatto si riprese la maschera.

«Oh, insomma. Qual è il problema?»

«Siamo in missione.» Clarion riportò la maschera alla cintura e appoggiò la schiena alle mura; per allontanarsi da Moina, che continuava a rimanergli in braccio.

«Menti. É la tua puttana, vero?» La demone si sporse avvicinandosi di nuovo, i capelli lasciarono una scia dall’odore di mandorla. «Adesso sarà piegata in due con dietro un burocrate sovrappeso che gli fa un servizietto.»

Lo schiaffo risuonò nel corridoio. Quando cazzo la smetteva con quel delirio?

Moina girò la testa, tornando a fissarlo.

«Sì, colpiscimi pure se ti piace.» Moina sbuffò, come se fosse davvero risentita. «Tu ti fai spezzare le braccia e intanto lei succhia via soldi a qualche vecchio bavoso. Chi è stata con te per tutto il tempo? Chi era pronta a salvarti? Chi ti ha aiutato?»

«Ma se stavi...» Clarion ringhiò dalla rabbia. Era così incazzato che non riuscì neanche a trovare le parole. Si limitò a digrignare i denti. Doveva zittirla in qualche modo.

«Tu mi hai fatto un favore. E ti sono grata, Clarion. Molto grata.» Moina gli appoggiò la mano sulla spalla sana. «Non puoi lasciare che una ragazzina qualsiasi ti distragga dai tuoi…»

Clarion la prese per la nuca e la avvicinò: la baciò. Moina ricambiò l’abbraccio. La lingua sfiorò la sua, lo accarezzò con morbidezza. Moina premette e Clarion riuscì a sentire il contatto con i denti appuntiti.

«Ti basta?» chiese Clarion.

La saliva della demone sapeva di liquirizia, aveva qualcosa di strano. Qualcosa che gli stava facendo vibrare la spina dorsale dal piacere mentre un’ondata di calore gli inondava le guance.

Moina si leccò le labbra. «No.»

Le mani della donna scesero sul petto. Scesero ancora. Clarion non aveva più voglia di resistere, non si rese neanche conto di avere un braccio paralizzato. Donna, demone, che importanza aveva? Si meritava un po’ di svago dopo tutto quello che aveva passato. Magari era davvero tutto finito.

Le labbra di Moina si allontanarono, insieme alla lingua e al sapore di liquirizia.

«Sento una presenza.» C’era una nota di stupore nella voce di Moina.

«Co… Come? Cosa?» La bocca di Clarion rimase aperta, con la lingua a leccare il vuoto.

Moina tornò nel corridoio con fare guardingo.

Clarion la seguì, e controllò: le guardie erano sparite. Al loro posto, in mezzo al corridoio una sagoma illuminata dalla luce della luna: Taires. Aveva una alone bianco intorno al volto e teneva in mano un coltello, o qualcosa di simile: era un po’ più lungo e un po’ più curvo di un pugnale.

«Ci rivediamo allora?» Moina appoggiò una mano sul bacino e portò una gamba avanti: la coscia scivolò fuori alla gonna. «Alla fumeria non sei stato carino con me.»

La testa di Taires oscillò da una parte e poi dall’altra. L’alone bianco sembrava provenire da una luce interna al mantello. «Non sono qui per te.»

«Io invece ho un sacco di cose da dirti» rispose Moina.

Taires inclinò la testa a fissarli. Con movimenti lenti e calibrati rinfoderò la lama ricurva.

«Le guardie staranno bene. Non le ho uccise» disse a Clarion.

«Certo.» La mano di Moina, sollevata a pugno, si illuminò di fuoco verde.

Una luce, rumore di cristallo che tintinnava.

La scia luminosa scaturì dal cappuccio di Taires e schizzò nel buio. Moina sollevò la mano per pararla, ma non fu abbastanza veloce.

Un crepitio, come di un tronco che si consumava nel fuoco, e Moina gridò, indietreggiando mentre la scia bianca curvava per proseguire verso l’alto.

Le dita di Moina si appoggiarono alla guancia, per poi allontanarsi. Clarion riuscì a vedere che i polpastrelli erano coperti di liquido nero.

Il ringhio di Moina fu profondo e rabbioso, aveva ben poco di femminile. La demone balzò in aria e spiccò in volo in direzione della lucina. La lucina si allontanò e Moina la seguì.

«Non sei uno degli Inquieti. Chi sei?» chiese Clarion.

«Il nome che usiamo per te non avrebbe significato.»

Strano. Taires aveva un tono fermo, ma non privo di gentilezza. Ben diverso dal tono freddo e professionale di Belthar. Atteggiamenti diversi, ma stesso mestiere. Anzi, no. Non lo stesso. Belthar difendeva il suo paese, questo invece era solo uno sporco traditore.

«So chi sei.»

«No. Io so chi sei, Clarion.» Taires sorrise in modo rassicurante. Ma come faceva? «Quando quel giorno mi hai liberato dalla botte hai reagito. Volevi fare la cosa giusta. Per te non era solo una missione.»

«Sei il complice di Cletiana: la ratto mannaro che ho incastrato.» Gli occhi di Clarion si socchiusero. «E vuoi andare a liberarla. Nel Ludum.»

Taires annuì, con aria triste. «Il piano era un po’ più complesso di così, ma quando hai fermato gli alchimisti ho dovuto adattarmi.»

Troppo buio. Clarion non riusciva a identificare le reazioni dell’altro. Basarsi solo sul tono non era abbastanza per riconoscere con certezza una menzogna.

«Due diversivi. L’esplosione alla bloccarda per tenerci tutti occupati. E me: volevi che portassi i Bracchi a salvare Belthar. Cosa c’è dentro al Ludum? Da quanto tempo pianificavate tutto questo?»

«Cinque anni, e riguardo all’altra domanda non capiresti. Ma mi fa piacere scoprire che sei ancora vivo.»

Troppo poco credibile. L’altro gli stava nascondendo qualcosa, ma si controllava bene. Doveva metterlo alle strette, farlo sbilanciare; o non avrebbe ottenuto niente.

«Certo, Taires, per te la vita è importante. E intanto hai fatto ammazzare tutte queste persone senza il minimo scrupolo.» Clarion allargò le braccia verso il campo di battaglia.

«Non sapevo che eri tu l’Ombra di questa operazione.»

Le spalle di Taires si abbassarono; gli occhi fissarono il pavimento. Clarion non lo sentì, ma vide il petto salire e scendere in un sospiro.

«Ottenere la fiducia delle persone; fargli credere che avevano sbagliato, e provocarli per avere una scusa. Li ammazzavi così, vero?» Clarion scandì ogni parola, sputandogliela contro.

Taires fece un passo indietro; alzò la testa a controllare il cielo. «Se ti uccidevo sarebbe intervenuto il Teschio. Sarebbe andata anche peggio.»

Le spalle si erano risollevate; il senso di colpa era scomparso anche dalla voce. Un dannato assassino in pace con la propria anima. Meglio cambiare tattica.

«Vuoi entrare nel Ludum, anche se sei rimasto solo, senza Inquieti. E lo fai solo per non farti catturare. Ma è tardi per te, stanno per venirti a prendere.»

Niente ancora. I lineamenti rimanevano immobili, ma con così poca luce difficile dirlo con certezza.

«Chi è la tua amica, Taires? Farai ammazzare anche lei?»

Clarion si allontanò; decise che poteva abbassare la guardia e controllò in cielo. Una scia rossa partì da Moina e andò verso la lucina bianca, ma questa la schivò.

«Non ha importanza.» Taires tornò a guardarlo e iniziò a camminare verso Clarion. «L’unica cosa importante è che tu prima o poi inizierai a farti delle domande.»

Gli occhi di Clarion lo seguirono. Taires gli camminò di fianco, come se nulla fosse.

«La risposta a quelle domande è: non sei solo, Clarion.»

Per tutte le baldracche dell’abisso, quel bastardo gli stava camminando di fianco. Non un battito di ciglia, non un tremore, non un minimo accenno di paura. Non si preoccupava di nulla. Come faceva a sentirsi invulnerabile?

Taires superò il corridoio, ed entrò nel cortile tra il primo e il secondo anello. Calpestò i simboli con noncuranza e continuò a fissare di fronte anche quando scoppiettarono di verde.

Il tempo di Clarion si stava esaurendo. Doveva fare qualcosa.

Lo sguardo di Taires si alzò verso lo scontro aereo.

Va bene. C’era il rischio di sprecare una risorsa importante. Ma alla fine “la missione prima di tutto”, no?

«Adesso Moina: colpisci Taires!» Clarion sfoderò una balestra dal mantello. Il tiro era facile. Premette il grilletto.

Il meccanismo scattò con un click; il dardo iniziò il viaggio verso il petto di Taires. L’uomo fu più rapido: balzò di lato, atterrando contro il muro.

C’era qualcosa di innaturale in quella velocità, ma Taires non aveva più spazio per spostarsi. Il muro di glifi non gli permetteva di avanzare, il muro crollato gli bloccava la fuga.

Non poteva evitare l’attacco di Moina.

La scia purpurea calò dal cielo come un fulmine di sangue.

Si fermò a meno di un braccio di distanza da Taires: la lucina bianca l’aveva bloccata. Si era messa in mezzo.

Un’esplosione di fuoco grande quanto un melone, e di color ambra. La lucina avvampò, causando uno sfrigolio di scintille; con un riverbero bianco, come la sagoma di un volto in miniatura. Il lampo di luce divenne un oggetto scuro, che precipitava, lasciandosi dietro una scia di fumo più scuro della notte. Non brillava più.

«No!» Le mani di Taires si chiusero a coppa: riuscì a prendere al volo il grumo nero.

Finalmente l’espressione dell’altro si infranse: mostrò paura, disperazione.

Le labbra di Clarion si contorsero dal piacere.

Si bloccò subito. Che diavolo stava facendo? Si stava lasciando prendere dall’emozione?

«Ancora, Moina!» Clarion rimase con in mano la balestra scarica, non sarebbe riuscito a ricaricarla con un braccio solo. Ma non si preoccupò: niente poteva uscire dal circolo di glifi. «Facciamo fuori il bastardo.»

Taires corse via; s’infilò sotto al portone appeso ai cardini, e scomparve nell’oscurità.

Un tonfo attirò l’attenzione di Clarion.

Si sporse per controllare meglio, ed eccola là per terra: la risorsa che aveva messo a rischio.

Moina rimaneva immobile, supina a terra. Un bel volo: era atterrata sopra cadavere annerito di un soldato.

Clarion si diresse verso di lei, le appoggiò la mano sana sulla spalla e la girò.

Sangue nero impregnava i vestiti di seta. Usciva, o meglio, sgorgava da uno strappo sulla pancia: un gran bello squarcio.

«La troia se n’è approfittata quando ho mirato al suo amichetto.»

Esatto. Il rischio era proprio quello.

Tutto quel sangue prometteva male. Se la demone crepava Clarion si sarebbe beccato una ramanzina. Se faceva incazzare il Teschio poteva finire male.

«Almeno l’ho beccata: adesso brucerà nell’abisso.» La demone sorrideva, mostrando i denti sporchi di liquido nero. Gli occhi rossi erano diventati più cupi. Meno male, almeno l’aveva presa con filosofia.

«Ce la fai a camminare?»

La lingua della demone leccò il sangue sulle labbra.

«No, amore mio. Portami via di qua, ti prego.»

Clarion lanciò un’occhiata al braccio rotto.

«Ti prego. Non lasciarmi.» Moina ansimò, lo sguardo implorante. «Sento freddo.»

Tutte cazzate. Era solo una scenata. E anche se non era così non ci poteva fare niente.

«Vado a cercare aiuto.»

Clarion si alzò e si allontanò, abbandonando la demone sopra al soldato morto.



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